giovedì 16 ottobre 2008

Massimo Volume - Meglio di uno specchio

Massimo Volume

4 DICEMBRE 2008 AUDITORIUM FLOG (FI)

Scorciatoie rock per la letteratura
di Giuseppe Pias

Nel breve arco di quattro dischi, i Massimo Volume hanno marchiato a fuoco il rock alternativo italiano. La loro peculiarità, rispetto agli altri campioni del "made in Italy" anni 90, è una narrazione tout court, cruda e diretta, che affida a brevi tratteggi la definizione di una vita. Storia di un'avventura in bilico tra (post)rock e letteratura




MASSIMO VOLUME



Stanze (Underground, 1993) 7,5

Lungo i bordi (Wea, 1995) 8,5

Da Qui (Mescal, 1997) 8

Club Privè (Mescal, 1999) 6,5



EL MUNIRIA



Stanza 218 (Homesleep, 2004)



Un approccio differente

Il periodo 1993-1995 è stato molto fecondo per la scena indipendente italiana: sono usciti dischi che hanno ridisegnato il panorama musicale, aggiornando il linguaggio rock autoctono con risultati spesso interessanti quando non eccellenti. Sono infatti di quegli anni opere come il debutto dei Csi (gli ex-Cccp ora più gruppo e meno performance), la svolta in lingua italiana degli Afterhours con il formidabile "Germi", i debutti di Marlene Kuntz, Almamegretta, La Crus, etc. Tutti importanti, per un motivo o per l'altro, e soprattutto vere e proprie iniezioni di nuova linfa vitale nel rock "all'italiana". La maggior parte di questi gruppi e autori suona tuttora, in alcuni casi anche con buone soddisfazioni dal punto di vista delle vendite, come nel caso di Marlene Kuntz e Afterhours. Vi è poi un altro gruppo esordiente in quegli anni, apparentemente minore, che non è sopravvissuto al riflusso, o meglio all'assorbimento da parte dell'establishment di quei nomi e di quelle proposte, ma che è riuscito quanto e più degli altri a colpire il pubblico per la sua originalità e grande capacità espressiva, per il suo incarnare con un suono e una voce unici il malessere presente dietro tante esistenze quotidiane. Questo gruppo, destinato a restare nella memoria degli appassionati della musica più sincera e incompromissoria, si chiamava Massimo Volume.

"Era il 1991, al tempo provavamo in cantina con un'attrezzatura infame, avevamo solo due vecchi amplificatori, così per poter sentire il suono dicevamo in continuazione: Massimo volume, alza al massimo volume".

In quella cantina, a Bologna, si trovavano a provare Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Umberto Palazzo, Gabriele Ceci. Una compagnia composta da un transfuga da San Benedetto del Tronto, girovago inquieto, con l'ossessione della scrittura (Clementi), un rocker che si era fatto le ossa in un precedente progetto, gli Allison Run (Umberto Palazzo), una batterista donna che all'occorrenza canta (la Burattini), e un chitarrista di buon livello (Gabriele Ceci).
La carriera dei Massimo Volume evidenzia come il gruppo sia riuscito, nel breve arco di quattro dischi, a imporre un suo discorso personale in virtù di una felicissima fusione di svariati talenti, saldata da una perseveranza e una chiarezza di obiettivi che ha permesso loro di creare dischi autenticamente innovativi ed espressivi. Quel che più colpisce, nel riascoltare a posteriori il lascito musicale del gruppo, è il grande coraggio, la totale estraneità a una scena musicale come quella emersa in quel triennio famoso, già di per sé autonoma e slegata da considerazioni troppo commerciali, e la forte personalità.

Un demotape inciso nel 1992, ora praticamente introvabile, è la prima uscita ufficiale del gruppo, e presenta un suono acerbo e crudo, un rock distorto, cupo e ossessivo, ma già foriero di interessanti direzioni: soprattutto mostra quanto fosse difficile l'amalgamarsi del canto di Umberto Palazzo, più vicino a certo spirito indie convenzionale, con la voce di Clementi che si limitava a recitare i testi. Dopo un poco, Umberto Palazzo lascerà il gruppo, non senza contrasti; è verosimile che la presenza di due modi così diversi di intendere la voce, e di conseguenza l'impostazione musicale tout court, fosse impossibile da gestire in modo accettabile. La decisione del gruppo di proseguire con il solo Clementi sarà un passo fondamentale per il progresso del progetto musicale, progresso che avrà il definitivo compimento con l'ingresso del chitarrista Egle Sommacal, al tempo studente al Dams, e già dotato di notevole tecnica. Così il gruppo è definito nel suo nucleo sostanziale: Vittoria è il supporto ritmico vivace e fantasioso, soprattutto dopo che alleggerirà le sue trame in favore di una maggiore versatilità nei ritmi. Egle è la chitarra principe, capace di svisate noise, riff tenaci e incisivi, ma anche di raffinati preziosismi e assoli liquidi ed evocativi. Emidio mette di suo, oltre al basso, la voce e i testi: la pietra dello scandalo. L'uso del recitato in luogo del canto è una scommessa rischiosa, dettata dalle evidenti mancanze (Emidio non sa cantare), che si rivelerà in realtà vincente sin dal primo prodotto a lunga distanza.
Riguardo al contenuto testuale, va qui aperta una breve parentesi. Tra i gruppi usciti in quel triennio, la stragrande maggioranza di costoro ha avuto sin dall'inizio una particolare attenzione ai testi. Gli esempi più importanti sono rappresentati dai Csi, in cui Ferretti ha diluito la sua vena poetica, feroce ed essenziale nei precedenti Cccp, in quadri più ampi, senza perdere nulla della potenza evocativa. Anche gli Afterhours sono molto interessanti, soprattutto per l'uso del cut-up da parte del cantante e autore Manuel Agnelli, con brevi frasi mischiate tra loro, a produrre un senso generale che si intuisce più che capire, attraverso un registro che vira in genere sul grottesco e sullo sberleffo amaro. Degni di nota anche i testi di Marlene Kuntz e La Crus, per quanto, specialmente nei primi, si tenda a volte a una scelta lessicale troppo elaborata, quasi artificiosa. In tutto questo, i Massimo Volume vanno in una direzione totalmente diversa: viene infatti privilegiata la narrazione tout court, cruda e diretta, che affida a brevi tratteggi la definizione di una vita, di un ricordo, di un particolare stato d'animo, ma più con la forma di prosa, anziché di "poesia". Il lessico è quello comune, ma ogni singola parola è perfettamente bilanciata e precisa. Inoltre, è spesso usata la prima persona singolare, come se Emidio Clementi raccontasse eventi a lui accaduti (cosa in parte vera): vengono accennati personaggi e situazioni che ricorrono disco dopo disco, a ricostruire il racconto di una vita, un espediente questo decisamente letterario. Anche i detrattori del gruppo non possono non riconoscere l'alto valore di ciò che vien detto in quei brani, e va da sé che l'unione di quei testi con quella musica ha effetti deflagranti.
Il gruppo viene messo sotto contratto presso la minuscola etichetta di Bologna Underground Records, e nel 1993 esce il primo disco, Stanze.

Pensieri che non riesci a trattenere

Registrato in soli tre giorni, Stanze ha un impatto dirompente. Su una base ritmica dura, quasi post-hardcore, irrompono le chitarre noise e il recitato di Emidio. Le influenze dichiarate sono Sonic Youth e Fugazi, ma il sapore è diverso, in virtù delle doti affabulatorie della voce. Il disco è più vario di quello che sembra a un primo ascolto: le chitarre di Egle e Gabriele, ad esempio, passano da riff taglienti a deliri noise, incrociandosi o unendo i propri sforzi in deraglianti treni sonori. La batteria (e il basso, ma in misura meno evidente) regge il ritmo macinando pestate su pestate, con toni ossessivi che ben rendono il clima generale, tranne che in alcune tracce, dove diventa sottofondo ipnotico o tribale. Emidio, circondato da questo inferno sonoro, si limita a declamare, e in alcuni punti a urlare, le sue storie di vite urbane così misere da destare fastidio e insofferenza. Si parla di sfoghi pregni di nichilismo totale ("Giorni", "Stanze"), intensissime rievocazioni di eventi passati, che hanno lasciato tracce indelebili pur nella loro sostanziale insulsaggine ("Ronald, Tomas e io"), narrazioni di eventi quotidiani che lasciano trasparire il vuoto di esistenze schiacciate da gesti ripetuti sino alla nausea ("In nome di Dio", quest'ultima affine al minimalismo letterario alla Raymond Carver).
Insomma, si tratta di un gran debutto, al quale nuocciono un poco talune ingenuità nell'uso delle voci e certe architetture musicali troppo semplificate. In realtà, si tratta solo di rifinire, perché il progetto è già definito nella sue varie parti, e le liriche di Clementi sono già compatte, lucide e taglienti. E comunque, nel livello generale davvero buono, almeno due brani spiccano per la loro eccezionalità. Si trovano nel cuore del disco, un poco oltre metà. "Ororo" nasce dalle ceneri del precedente "Vedute dallo spazio": un poderoso riff iniziale di basso e la batteria sostenuta fanno posto a una travolgente cavalcata elettrica, in cui si erge come un oratore invasato il deliquio di Clementi, poi trasfigurato in quella che appare una vera e propria dichiarazione di intenti di sé e del gruppo, per concludere in un'orgia dissonante di chitarre. Una volta esaurito il fuoco, poi… Alessandro tiene un diario. Il ticchettio della batteria e un circolare, ipnotico, susseguirsi di note di chitarra reggono la descrizione, in gesti ossessivi, della vita di un disagiato mentale visto dal di dentro; quando poi la musica esplode all'improvviso, c'è un urto, un qualcosa che si spezza, si apre dentro. "Alessandro" è probabilmente il capolavoro dei Massimo Volume, nonché una delle più drammatiche, intense, pure canzoni mai scritte in Italia. Si osserva senza giudicare, si rende il senso di un esistenza in quattro minuti scarsi. Le parole scavano e creano una vita, ne delimitano le sue forme e i suoi movimenti più importanti. Un brano essenziale, in tutti i significati del termine, e una dimostrazione di maturità senza paragoni.

L'autoconsapevolezza nella sofferenza

L'ultimo brano di Stanze è "Cinque strade". In pratica è il testo di una canzone del 1983 (il tappeto musicale è totalmente differente), ad opera di Faust'o, vecchia gloria dimenticata della prima stagione new wave italiana. Non è questo il luogo deputato per parlare di Faust'o (ovvero Fausto Rossi), se non per dire che è stato un artista coraggioso e originale, capace di fondere i suoi amori (Beatles, Bowie, Ultravox tra gli altri) in canzoni fresche di stampo new wave con testi graffianti e ironici, ma anche, come testimonia proprio l'album del 1983, di usare una sorta di scrittura automatica con libere associazioni, apparentemente insensata eppure di grande impatto. Faust'o è un idolo riconosciuto dei Massimo Volume, ed è affidata a lui la produzione del disco successivo a Stanze. Va detto che non tutto va per il verso giusto, e l'uomo abbandona la console prima di terminare il disco (diverse idee sul trattamento delle voci, questa è la giustificazione), anche se il suo nome comunque appare nei credits del disco, che esce nel 1995 e ha per titolo Lungo i bordi.
Nel frattempo cosa è successo? È successo che Stanze ha riscosso un successo straordinario a livello di critica, acclamato come un capolavoro, un punto di riferimento, e, considerando le condizioni in cui è uscito, è proprio un risultato eccellente. Il clamore è tale che il gruppo viene scritturato addirittura da una major, la Wea, e si trova nelle condizioni ideali per poter approfondire il suo personale percorso.

Lungo i bordi rappresenta la naturale prosecuzione del discorso iniziato con Stanze, e contemporaneamente ne costituisce il completamento, oltreché un punto d'arrivo. La musica, smussate certe asperità, è ora maggiormente evocativa, più vicina all'idea di art-rock nel senso migliore del termine. I suoni sono più cesellati, le due chitarre sono meno noise, e più inclini a eleganti fraseggi, senza dimenticare la tensione e la drammaticità, al contrario ora più definite, più profonde. Musicalmente si può definire la loro formula come una sorta di post-rock, intendendo con ciò la precisa rinuncia a una forma-canzone ben definita (compresa di ponte, ritornello e così via), in favore di fraseggi chitarristici che sono l'ossatura del pezzo, e definiscono anche le linee melodiche, coadiuvate talvolta dal basso, e con la batteria che usa svariati ritmi, mai particolarmente veloci e molto curati in sede di produzione. Il basso in alcuni brani è lasciato a Franco Cristaldi, amico e collaboratore di Fausto Rossi, e il contributo si sente, con note corpose e di appoggio alla chitarra.
Lungo i bordi è senz'altro migliore di Stanze: persa per strada un poco di foga, qui la musica si fa più incisiva e particolareggiata, e i testi, già eccellenti nel debutto, assumono sfumature ancora più raffinate e incisive. Per comprendere la portata dell'opera basta ascoltare in rapida successione il formidabile trittico iniziale, che mostra la maturazione avvenuta. Apre il disco "Il primo dio", appassionata elegia dedicata alla figura del poeta misconosciuto Emanuel Carnevali, idolo di Clementi e figura tragica e romantica. Clementi spazza via con forza ogni possibile retorica ed è commovente e abbacinante la maniera con cui tratteggia la sfortunata esistenza dell'uomo e magnifica al tempo stesso la sua arte: "Dire qualcosa mentre si è rapiti dall'uragano, ecco l'unico fatto che possa compensare di non essere io l'uragano...". Anche Rimbaud viene citato e omaggiato, esempio, come Carnevali, di esistenza totalmente bruciata al fuoco del proprio talento. Segue a questo brano "Il tempo scorre lungo i bordi": qui la musica è lenta, minacciosa e inquietante, e Clementi parla di due persone, il cui legame è prosciugato dal tempo che passa, che lascia solo la polvere; il brano ha a un certo punto un'improvvisa accelerazione, come se la tensione accumulata dovesse per forza esplodere… e infatti esplode, trascinando via ogni cosa, e lasciando solo rammarico e frustrazione. Infine, chiude il trittico la sensazionale "Inverno '85", uno dei migliori parti di Clementi e del gruppo tutto: un fraseggio insistito di chitarra e la batteria a ritmo di marcia ci guidano nella rievocazione di pomeriggi passati a cercare il senso di un'adolescenza tormentata attraverso l'ascolto ossessivo di una canzone, "Wicked Gravity" di Jim Carroll, qualcosa che è capitato a tutti, e qui viene mostrato in tutta la sua forza espressiva. È qui che si raggiunge l'acme del disco, in particolare quando Clementi ruba e fa sua definitivamente la frase di Jim Carroll "mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata", che cade pesante come un macigno, toccante e rabbiosa. Per il resto, si esplorano altre visioni cupe e desolate: si passa dall'iperrealismo di "Pizza Express", all'ennesimo sfogo di malessere che avviene con "Nessun ricordo", senza dimenticare altri due brani notevolissimi; il primo è "Meglio di uno specchio", un treno lanciato a tutta velocità sul filo di una spietata analisi di coppia, e l'altro la conclusiva "Ravenna", curioso e dolente affresco sull'inadeguatezza di sé. Da notare, tra i collaboratori in questo e altri pezzi, la presenza di Manuel Giannini, già produttore del primo disco nonché fondatore del gruppo di avant-rock concettuale Starfuckers.

Lungo i bordi è una lucidissima e dolorosa analisi di eventi e raffigurazioni apparentemente senza importanza, scavati chirurgicamente in modo da portare alla luce il malessere e il vuoto di tante vite; è un disco fondamentale per il rock italiano, ancorché isolato e quasi irraggiungibile nella sua cruda bellezza.

From here to nowhere

Se "Cinque strade" era un passaggio di testimone dal primo al secondo disco, "Da qui", breve intermezzo di chitarra e voce presente in Lungo i bordi, rappresenta il trait d'union tra questo e il nuovo lavoro del gruppo, che esce nel 1997 e riprende il nome proprio dal pezzo in questione. Prima dell'uscita del disco una notizia bomba aveva mandato in sollucchero i fan del gruppo: nientepopodimeno che sua maestà John Cale, sì, proprio lui, si era proposto per il nuovo lavoro. Poi, come si dice, i sogni muoiono all'alba, e il progetto è sfumato: Clementi e compagni hanno spiegato che si trattava perlopiù di problemi di natura economica, come ad esempio la richiesta di John Cale di lavorare a New York per la registrazione. È rimasto comunque l'attestato di stima, che dimostra la reale statura del gruppo e che si aggiunge alle altre soddisfazioni sinora raggiunte. La produzione viene affidata alle mani sapienti di Steve Piccolo e Kaba Kavazzuti, già collaboratori nel precedente lavoro, con ottimi risultati. Nel frattempo al gruppo si è aggiunto un altro membro, Metello Orsini. Ora sono tre le chitarre presenti, ma il lavoro di cesello è tale che anziché ottenere un "wall of sound", le trame diventano rarefatte e nitide, con la chitarra solista che spesso e volentieri disegna assoli liquidi e dilatati.

Si percepisce un cambio di atmosfera notevole, rispetto all'aggressività precedente. E infatti un sentimento indefinibile aleggia lungo tutto questo disco, un qualcosa di aleatorio che pervade le note e le parole di ogni singolo pezzo. Da qui è un unico vagare in brevi storie, narrazioni spesso compresse in brevi flash, dove la musica diventa quasi stasi, e le parole si posano lievi e chiare: è il caso di "Sotto il cielo" e "C'è questo stanotte". Altrove, come in "Manciuria", "Atto definitivo" o "Avvertimento", si avverte ancora la tensione che pervadeva il precedente lavoro; ma, come già detto, in questo caso il mood generale è omogeneo, non particolarmente cupo, ma non certo tranquillo; sembra quasi un diario di un trentenne in crisi esistenziale. In "La città morta", addirittura, si arriva quasi a sorridere, sentendo il resoconto della sfigatissima gita invernale del gruppo in una di quelle città che vivono solo d'estate, tipo Rimini o Riccione; scatta quasi istantaneo il ricordo di "Ravenna", del precedente lavoro.
In ogni caso le parole scelte sono quanto mai distanti dai canoni "giovanili", liberate dagli eccessi emotivi che caratterizzavano Stanze e Lungo i bordi, e ben supportate dalla musica elegante e precisa; se l'etichetta non fosse già utilizzata per un genere quanto mai distante, si potrebbe definire questo vero e proprio Rock Adulto, davvero. Con questo album i Massimo Volume arrivano a una sorta di perfezione formale impensabile sino a qualche anno prima; se Da qui non supera le vette del precedente, è solo perché è chiuso in un intransigente sistema interno, del quale bisogna accettare le premesse e condividerne il senso, esemplificato dalla bella frase di A. Jodorowski posta sul libretto interno: "Io allora comprendo che non è bene cercare la sicurezza, perché conduce alla morte. E che è meglio vivere nell'incerto". Pur essendo musicalmente più melodico, è un disco che concede poco o nulla a un ascolto disimpegnato, paradossalmente assai più che con i precedenti, forse più assimilabili con le loro furibonde rappresaglie sonore. Lo stesso Clementi lo presenterà come il disco più ostico inciso dal gruppo.
Detto già di alcuni brani, restano ancora da citare la splendida, trascinante "Sul Viking Express", che esprime un senso di spaesamento tangibile; la delicata e dolente "Qualcosa sulla vita", che si adagia su parole mai così ben recitate, e chiude in toni più speranzosi del solito. E ancora "Manhattan di notte", notturna riflessione filosofica con un testo da antologia; strepitosa la progressione dei versi "Non c'è nessuno dentro queste stanze illuminate/dentro questo poster 'Manhattan Di Notte'/che nasconde l'interno della cucina di un ristorante cinese". Infine "Stagioni", che chiude l'album in modo inaspettato: un brano trascinante, epico, l'ennesimo ricordo trasfigurato che si incendia alla fine, come a voler dissolvere in una volta la tensione accumulata sotterraneamente. Un epilogo davvero importante, degno suggello di un album ancora una volta eccellente.

Il primo di(sc)o

L'uscita di Da qui deve aver rappresentato, per i Massimo Volume, una sorta di vicolo cieco: la loro proposta musicale era stata abbondantemente esplorata dal gruppo, anche in virtù delle limitazioni autoimposte, come la scelta di suonare quasi solo rock chitarristico, l'uso del recitato, il tipo di testi usati. Per il nuovo lavoro, dunque, il gruppo decide di affidarsi alle mani di Manuel Agnelli, il già citato cantante e leader degli Afterhours, nonché vera e propria eminenza grigia del rock made in Italy degli ultimi anni, oltre che per il suo ruolo di produttore (Scisma, Pitch e Cristina Donà), anche come organizzatore del festival di musica rock italiana Tora! Tora!. Manuel Agnelli è legato da profonda amicizia a Emidio Clementi: insieme faranno un viaggio in India, e collaboreranno alla realizzazione di un tour a due, gli Agnelli Clementi. Tutto questo per dire che l'uomo sembra proprio il personaggio adatto per ampliare il raggio d'azione del gruppo, sia dal punto di vista musicale, sia da quello delle vendite, che a dispetto del grande entusiasmo sin qui raccolto, sono state alquanto mediocri.
Club privé, questo il titolo dell'ultimo parto dei Massimo Volume, si presenta quindi con una serie di novità sostanziali. Per cominciare, l'ennesimo cambio di formazione: dopo sette anni di onorata carriera, Gabriele Ceci decide di lasciare il gruppo, per dedicarsi a progetti personali. Emidio Clementi tenta la via del canto: nel disco due o tre pezzi lo vedono modulare la sua voce incerta. Infine, l'austero rock chitarristico viene ampliato a nuove suggestioni, grazie agli effetti di produzione di Manuel Agnelli: il disco suona molto più variegato, Vittoria ha ritmi più leggeri, diversificati, mentre Emidio vira un poco il suo solito registro stilistico, affrontando, oltre l'autobiografismo letterario, anche una visione dell'amore meno disperata, seppure non troppo ottimista. Ma il risultato finale, spiace dirlo, appare debole e non così riuscito come era lecito aspettarsi. Club Privé è un disco che nasce stanco, per citare un pezzo dell'album tra quelli meno riusciti. Cosa non funziona in effetti? Per esempio, si affaccia per la prima volta un poco di manierismo, una riutilizzazione non ispirata di alcuni codici che altrove avevano dato risultati così brillanti, i testi non sono più così incisivi, forse per l'avvicinamento a una forma canzone maggiormente canonica, e anche il cantato di Emidio non scuote molto, al di là del risultato non esaltante (e comprensibile). Non è un disco brutto, sia ben chiaro: manca però quella formidabile compattezza che aveva legato i tre lavori precedenti: non c'è né l'ardore del primo, né l'analisi spietata del secondo, né l'omogeneità e l'alterità (anzi, l'austerità) del terzo. Ci sono alcuni bei spunti, certo; per esempio l'iniziale "Pondicherry", che procede lieve con i controcanti, la batteria a ritmo dispari e la voce che disegna un rapporto nelle sue contraddizioni, nelle sue possibilità e impossibilità. Oppure "Avevi ragione", che è malinconica e soffusa come le lucine dell'albero di Natale, osservate dopo che Natale è passato. Sofferta e dolce. Ancora, il bizzarro esperimento di "Il tuo corpo affamato", forse la cosa più "pop" mai scritta dai Massimo Volume, l'ossessiva "Privé", che si basa su una ritmica martellante e sulla ripetizione continua della frase "Io non ho speranza, ma credo nella cura", e il lungo mantra "Dopo che".

Sia come sia, Club privé assume col tempo il carattere di lavoro di transizione, necessario anche nella riuscita non perfetta… Invece, dopo le tournée di rito, con l'accompagnamento di altri due chitarristi, Marcella Riccardi e Dario Parisini, che sostituiscono Metello Orsini, e dopo la realizzazione della colonna sonora per il film "Almost Blue", assemblata mischiando vecchi pezzi e nuovi strumentali, buona solo per completisti, dopo tutto questo, accade che nel gennaio 2002 il gruppo, con uno scarno comunicato sul suo sito ufficiale, annuncia il proprio scioglimento.
È un brutto colpo, ovviamente: il gruppo avrebbe sicuramente potuto offrire ancora molto e non aveva sbagliato quasi nulla; per altri versi, invece, lo scioglimento è stato opportuno, avvenendo prima che i rapporti personali degenerassero, e la musica ne risentisse. Ma lo sconforto è grande, per la chiusura di un'esperienza tra le più originali e sincere udite in Italia, e non soltanto negli anni 90. Originali, appunto: la loro strada non è stata percorsa da altri gruppi, perché troppo personale e disegnata sulle spalle dei suoi artefici. Chi avesse seguito le medesime tracce avrebbe miseramente fallito, non avendo l'efficacia delle liriche di Clementi e la grande capacità del gruppo di costruire attorno a lui quei suoni così penetranti e adatti. Difatti, solo attorno al 2004 il nome dei Massimo Volume è stato di nuovo accostato a un altro gruppo. Ci si riferisce ovviamente agli Offlaga Disco Pax, sgangherato e irresistibile combo dove si usa il recitato in un contesto più ironico anche musicalmente, ma anche qui attento al peso delle parole, che costruiscono un piccolo mondo idealizzato a base di nostalgie adolescenziali anni 80, Cccp (nel senso di gruppo) e Pci (nel senso di partito politico). Non è una vera e propria influenza, bensì una riutilizzazione efficace di quel modus.

Dopo che le strade si sono divise, i membri hanno proseguito la carriera con altri gruppi. Emidio, con Dario Parisini, ha tirato su un nuovo progetto, gli El Muniria, il cui debutto del 2004, "Stanza 218", è stato incoraggiante, mischiando l'elettronica al consueto reading; inoltre, da anni egli ha una carriera parallela come scrittore, avendo già pubblicato tre romanzi e una raccolta di racconti, alcuni dei quali musicati su Da qui.
Vittoria Burattini si è unita al gruppo Franklin Delano tra il 2004 e il 2005, dopodiché ha lasciato. Egle, dal canto suo, ha suonato con gli Ulan Bator, fa parte dell'interessante label Unhip Records, e ha debuttato da solista con Legno (2007). Alla fine la storia, pur con altri nomi, continua.

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